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Luca Trapani


Edizione: 
2019

“Correva l’anno 2017…” Proprio così dovrebbe cominciare il mio racconto della VUT 2019. Già: risale ormai a più di due anni fa il ricordo di un messaggio whatsapp di mia sorella che lessi la mattina presto: era un link ad una pagina di una testata locale e raccontava dell’organizzazione di una grande corsa sull’Alta Via della Valmalenco. Svegliai subito la mia ragazza: “Alessia, stanno organizzando un’Ultra Trail sull’Alta Via della Valmalenco”, le dissi  colpendola fastidiosamente e ripetutamente sul braccio. Lo ricordo ancora, avevo un nodo in gola nel dirlo. Corsa in montagna, Alta Via e Valmalenco, tre fra le cose che amavo ed amo di più, si stavano per fondere in un unico evento. Accarezzai da subito l’idea di percorrere i 90km per intero, ed oggi devo ammettere, senza nessuna preparazione. “Fortunatamente” allora mi fermò un infortunio ancor prima di poterci pensare sul serio. L’anno scorso mi iscrissi invece alla seconda frazione, ma mi era chiarissimo si trattasse solo di un dolce preludio alla gara regina.  E così eccomi qui, ai “nastri di partenza”. Fra il frastornato e l’impaurito, cerco con lo sguardo quello di qualche compagno di viaggio per alleggerire la tensione. La mia ragazza è aldilà della transenna ed è visibilmente emozionata, più di me. Io sono ormai in trance, so che dopo che il countdown avrà dato il via, dopo i primi km di “cinque” battuti in sequenza ai bambini, saremo soli nel bosco, con le nostre paure e debolezze.
Un ultimo bacio ad Alessia e si parte, sfiliamo piano per il centro di Chiesa, fra due ali di folla incredibili, di quelle che non ti aspetti. Vedo qualche amico, sento il mio Suunto suonare, mi sta dicendo che ho già superato il limite dei battiti cardiaci che mi sono preimpostato di tenere. “Picchi emozionali” che mi accompagneranno per tutto il lungo viaggio. Passata la prima bolgia di gente ci incanalano sul sentiero Rusca. I frontalini davanti a me si allontanano sempre di più, mi chiedo seriamente cosa stessi facendo lì, fra tutti quei “mostri” dell’Ultra Trail.  Mi vengono in mente le parole di Gianluca, un amico che fece la prima edizione, anche lui per intero , fra l’altro con un gran tempo: “all’inizio corrono tutti come dei matti, tu lasciali andare”.  E così faccio. Mi ritrovo da solo, con un paio di frontalini subito innanzi a me. Dietro, per paura, non ho mai guardato, ma ero sicuramente fra gli ultimi dei quasi 180 “pazzi” della 90km.
Arrivati a Torre inizia la salita: penso ai miei familiari ed amici mentre mi seguono in diretta sul sito dell’organizzazione. Riecheggiano le parole di mio padre “Non hai mai fatto più di 45km, come fai a farne 90km?”. In realtà non lo so nemmeno io. Ci addentriamo nel bosco ed il gruppo si ricompatta. Al primo ristoro, il Rifugio Cometti, trovo molte persone ferme. Faccio un pit stop rapido e ne sorpasso già una decina, mi rincuoro. Mi sono imposto di arrivare la rifugio Bosio in 2h50’ e centro l’obiettivo. Un sorso di the e riparto in discesa, scambio le prime parole involontarie con qualcuno che ho raggiunto: pensava fossi il suo amico “Alberto”, rimasto probabilmente attardato.
Alpe Lago, mando dei vocali alla mia ragazza per aggiornarla sulla mia posizione. Oltrepassando ristori più o meno ufficiali raggiungo l’Alpe Pirlo e l’immagine più spettacolare di tutta la mia VUT: una fila di lampade frontali mi sta indicando la via, lunghissima, che mi porterà al passo Ventina, anche se non ne intravedo la fine. Non fosse stata per la luna, quasi piena, che con il suo pallore illuminava la nostra rotta, sarebbe stato esattamente come guardare il cielo col naso all’insù, ammirando una meravigliosa costellazione. La salita si fa ripida, scorgo su un sasso la scritta “Forza!” che vidi nel 2015, percorrendo l’Alta Via, l’ennesimo brivido mi percorre la schiena. Il serpentone di persone si è accorciato, ogni tanto si blocca. Resisto a 2, 3, 4 stop involontari, poi comincio a sorpassare su vie “alternative” alla già poco percorribile traccia che porta ai laghi di Sassersa. Qualcuno, più di qualcuno, si lamenta del terreno di salita: “questo non è trail running” dicono. “Benvenuto in Valmalenco”, mi verrebbe da rispondergli. La paura di non stare nel primo cancello orario delle ore 7.00, nel frattempo, comincia a farsi strada in me.  Raggiungiamo i laghi di Sassersa, la luna si specchia nel primo lago, che vorrei fotografare, ma so che il telefonino non mi darebbe soddisfazione. Ancora uno sforzo ed arriviamo in cima al Passo Ventina: un sollievo. 2700m verticali nelle gambe, ma ancora non sento nessun fatica. Sta albeggiando e mi prendo un minuto per fotografare i frontalini alle mie spalle e la ripida discesa che mi aspetta. Il tempo di indirizzare i miei piedi verso Il rifugio Ventina ed è tempo di spegnere l’ “occhio di bue”, penso che è buona cosa risparmiare batteria. Sia mai dovesse servirmi per arrivare a Caspoggio…
Supero il primo tratto complicato di discesa, poi il nevaio, poi è finalmente ora di poter allungare la falcata di corsa, in picchiata fino a Chiareggio. Sono le 6 del mattino, in perfetto orario sulla tabellina di marcia che ho applicato con lo scotch al retro del cellulare.
La mia ragazza è li ad aspettarmi, mi rabbocca lo zaino di liquidi, panini e barrette al cioccolato e riparto. “Sei 78°” mi dice. “Impossibile, ne avrò superati 30 e sono partito ultimo!”. Invece aveva ragione lei.

Attacco la salita di Chiareggio, una passeggiata rispetto alla precedente, ma le forze cominciano a mancare e sono circa al 34°km, mi preoccupo. Sono quasi al Rifugio Longoni e dei volontari evidentemente notano la mia difficoltà: “forza, che al rifugio c’è di tutto!” Scherzo con loro, raggiungo il Rifugio, mi siedo 5 minuti, mi rifocillo e riparto: non so cos’avessero messo nel the i rifugisti, ma le mie gambe si mettono a girare meglio che in partenza. Ripasso davanti ai volontari, dico loro che avevano ragione, ci facciamo quattro risate che sollevano il morale e accelero il passo verso la vecchia carrozzabile dello Scerscen dalla quale, assieme ad uno dei tanti compagni di viaggio provvisori, raggiungo il lago Palù. Ripartiamo assieme, superiamo il Bocchel del Torno, e di nuovo discesa rapida fino al Campascio. La Musella è vicina e lì ci sarà nuovamente la mia ragazza ad aspettarmi. Corro, pur rispettando i limiti cardiaci preimpostati sull’orologio che comincia a segnare cifre per me nuove: 53km. Quanto durerò ancora? Raggiungo il “check point” con largo anticipo, mangio il mio primo piatto di pasta, bevo due bicchieri dell’immancabile the e, supportato dal tifo di Alessia, parto per la parte più temuta: il Vallone dello Scerscen. Trovo subito un altro compagno di viaggio, l’inossidabile Attilio, ma oltre a lui trovo anche una sgradita deviazione: una frana ha cancellato una parte del tracciato originale, tocca inventarsi una poco agevole alternativa in sinistra orografica del fiume omonimo della valle. “Ci sta rallentando”, commentiamo io ed Attilio. Sappiamo di non dover vincere la gara, ma il pensiero va subito all’ultimo cancello orario del Rifugio Zoia, delle ore 18. Siamo in anticipo, lo sappiamo bene, ma il Vallone è lungo, sfiancante ed abbiamo alle spalle 12h di gara. La deviazione innervosisce ma mi concentro sul bivacco mobile posizionato al 61°km. Raggiungiamo e superiamo diverse persone, ma pare non finire mai. Il ristoro “volante” ci appare come un’oasi nel deserto e acceleriamo il passo. Mi rifocillo e riparto da solo: prima di fermarmi ho visto 4 zaini ed anche se mi vergogno un po’ a dirlo, comincio a prenderci gusto: quegli zaini vorrei osservarli un po’ più da vicino.
Cosa che accade poco più tardi: raggiungo e cerco l’obiettivo successivo sul tracciato, ingannando anche così il tempo. Alle ore 14 raggiungo finalmente la Marinelli. Collè è già arrivato, si è fatto la doccia e si sta sicuramente godendo una birra. Ma vuoi mettere bersela ora, a oltre 2700m? Me l’ero promesso: il rifugio Marinelli rappresentava il mio traguardo immaginario: ho pensato per più di due anni a questa gara e mi ero sempre immaginato con un bicchiere di birra proprio qui, in questo punto. Così faccio: una bionda, un piatto di pasta, e riparto. Le gambe girano, la testa è leggera (merito della birra?) ed arrivo alla bocchetta delle Forbici, ma prima di scendere al Rifugio Carate mi guardo dietro: mille volte ho visto il gruppo del Bernina, in nessuna delle precedenti occasioni l’ho visto bello come ora.  Altra breve sosta al ristoro, e mi addentro verso la forcella di Fellaria. Lo ricordavo più vicino, più raggiungibile, più basso. Ma ormai sono qui, non mi fermano nemmeno con i fucili. Arranco un po’ ma il passo è raggiunto fra una lingua di neve ed un’imprecazione. Oltre il passo altra neve, cerco di non cadere ma vado col sedere per terra per tre volte. Beh, almeno avrò fatto ridere un pochino i volontari sorpassati da pochi secondi. Davanti a me altri due “zaini”, ma stavolta sono veloci. Corro dove posso, saltello sui sassi dove non si può, ma quei due zaini mi sfuggono. Fino al ristoro del Rifugio Bignami. Pit stop veloce e comincia la discesa. Non so perchè, ma sono passati più di 70km e 5400m di dislivello positivo e le mie gambe girano ancora bene. Accuso le salite, certo, ma in pianura corro come non credevo sarei stato in grado di fare dopo tutte queste ore in giro.
Raggiungo il Rifugio Zoia, quasi due ore prima della chiusura dell’ultimo cancello orario, ma ostento lucidità “non è finita finchè non è finita”, mi ripeto. Sto per tirare fuori il sogno dal cassetto e sento l’euforia salire, ma sono consapevole del fatto che se dovesse succedere qualcosa proprio ora, conoscendomi, mi dannerei per il resto dei miei giorni.
Allo Zoia ho anche la sorpresa di trovare alcuni miei familiari. Forse anche grazie a loro, sono lucido e fresco come non mai e riparto, assieme alla mia ragazza, onnipresente, la quale mi accompagna lungo gli ultimi 17km. Le mie previsioni stavolta vengono disattese, il male dal ginocchio destro comincia a farsi insistente ed io debbo tirare i remi in barca. Dal Rifugio Cristina in poi è una lunga agonia. Ma se prima non mi avrebbero fermato i fucili, figuriamoci ora. L’Alpe Acquanegra, Cup e Cavaglia scorrono lente sotto le nostre scarpe, troppo lente, ma arriviamo a Caspoggio e si sente la voce dello speaker che annuncia gli arrivi. Nel frattempo mi raggiunge e sorpassa anche il grande Attilio. Più la discesa si fa ripida, più il dolore si fa acuto, e più che camminare sto zoppicando in discesa. In qualche modo arriviamo a S.Antonio, Alessia mi precede e fa un’ultima accelerata vs. l’arrivo, per potermi accogliere da li. Raggiungo quindi da solo il centro di Caspoggio, mi accolgono campanacci, urla di festa, e ritrovo i “cinque” dei bambini. Viaggio veloce verso il traguardo, guardo l’orologio, segna 93km. L’attesa del piacere è essa stessa piacere, ma questi due anni che mi hanno separato da questo sogno che sto per realizzare, sono stati davvero lunghi. Penso agli amici, quantomeno a quelli che ci credevano quanto me, penso ai miei familiari, so che li vedrò tutti fra poco, oltre il traguardo, penso alla mia ragazza che mi ha sempre sostenuto in questa piccola follia. Penso a cosa sarebbe giusto fare e dire, una volta lì. Ci avrò pensato almeno 100 volte nell’ultimo mese, ma sul momento mi viene solo da rallentare la corsa lungo il viale di arrivo, iniziare a camminare, godermi gli ultimi secondi della MIA VUT e fare un lungo respiro liberatorio. Stop al Suunto. Sono solo un finisher di questa VUT, ad altri sono andati gli onori del podio e di prestazioni ben superiori alla mia, ma giungere 60°, dopo l’agonia ed i relativi controsorpassi dell’ultima frazione di gara, mi soddisfa enormemente. Al traguardo arriveremo in 90. Altri 90 circa non sono stati nei cancelli orari o si sono ritirati. Auguro loro di poter tirare fuori dal cassetto il sogno VUT già l’anno prossimo. Arrivederci al 2020, io sicuramente ci sarò.